Alessandra. Esce dal cancello secondario di una bella scuola di un quartiere romano di periferia.
Il passo è veloce. L’occhio sprizza gioia e soddisfazione, come quando si taglia il traguardo di una competizione e si è orgogliosi del proprio percorso. Non vede l’ora di abbracciare i suoi amici e compagni di avventura. Abbraccia e sorride. La mascherina non impedisce di veder parlare i suoi occhi. La gioia è tanta.
L’aveva promesso a sua figlia, due anni fa. L’aveva promesso a sua madre, mentre ancora asciugava le ultime lacrime che gli erano rimaste, quando le hanno consegnato il corpo fatto a pezzi della sua “bambina”.
Una furia omicida ha oltrepassato il limite dell’immaginabile. Quella morte ha indignato un Paese intero e tante sono state le lacrime versate, impastate di rabbia e impotenza.
È riuscita a studiare, negli intervalli concessi da lavoro, famiglia, udienze ed avvocati, tra le sofferte lacrime notturne e con il cuore gonfio di dolore e di forza, quella che le donne sanno portare. Si è preparata per l’esame di maturità che sua figlia avrebbe dovuto fare. L’ha fatto lei, la dolce madre delle lacrime e dei sorrisi, quelli riservati alle persone a cui vuole bene.
Mancava un anno a quella fragile e bella ragazza, per arrivare alla tappa della vita che ti dice “sei matura”. “Sei grande, ora”. Non ha potuto concludere i suoi studi. L’ha fatto ora sua madre per lei.
Un’attenta e saggia commissione, in un calda mattina di settembre, ha esaminato e ascoltato. Ha valutato: “Signora il diploma è suo. Meritato”!
L’orrore di quella cruenta morte, non è riuscito a smorzare la sconfinata volontà di una madre nel riscattare almeno un po’, di vita. Ce l’ha fatta.
Il diploma ora c’è. Ce l’ha fatta. Una piccola, dolce e fragile donna, ma dalla forza che smuove le montagne, quella che nasce dal cuore ferito di mamma.
Nessun genitore dovrebbe piangere la morte di un figlio. Nessuno dovrebbe ricomporne i pezzi per la brutalità scatenata da un essere umano. Ma tant’è – ahimè – che così non è.
Nel condividere la gioia della battaglia vinta, mi chiede una benedizione. Senza la presenza dell’Altissimo, le sue gambe non reggerebbero. Lo fa con una semplicità che disarma tutti. La chiede per lei e per tutti. Ci chiede di pregare assieme, in quel marciapiede che per un momento è diventata una delle più belle cattedrali del mondo.
Il suo corpo è abbellito dal nome della figlia inciso nella collanina che sovrasta il cuore. Nel polso una corona del rosario. Blu. Non di quelle da brandire, ma quella dalla quale essere avvolta e sostenuta. Quella del sincero dialogo silenzioso tra madre e Madre.
In quei momenti di gioia, riesce anche a staccarsi dal gruppetto e si ferma a farsi dono ad un’altra donna, una “senzatetto” di passaggio, che chiedeva aiuto. Per lei ha parole di conforto e di sostegno. Le regala qualche istante di dignità.
È stata brava questa madre coraggio. Superba nella sua dignitosa umiltà.
Orgoglio delle tante donne che reggono i pilastri della vita.
Sostegno alle tante donne che sono nel pianto e nell’impotenza.
Modello alle tante donne assopite o distratte dalle futilità del tempo.
Ora per lei la vita continua. Ritornano gli appuntamenti nelle aule di tribunale. Le visite al camposanto. Il lavoro, la famiglia e il suo sperare. Si, sperare che la giustizia umana faccia il suo corso, certa comunque che quella conta è la giustizia divina.
Lei ce l’ha fatta. Sua figlia, in lei, ce l’ha fatta!
Pamela non c’è più. Pamela però, vive!
don Fabrizio Bagnara
