Montagne. Ondulate sagome, ricamate dal tempo e dalla generosità della creazione.
Antiche frondi sempre verdi, coccolate dal vento, imbiancate dalla neve, lavate dagli scrosci d’acqua, baciate dai primi raggi di luce, di lunghi e ripetuti giorni, in agguato ad asciugare ogni lacrima di rugiada.
Solenni è slanciate anime viventi. Svettanti come l’allungamento della terra che cerca l’abbraccio del cielo, lasciandosi indorare dai riflessi rosati del sole prima del suo serale coricarsi.
Abeti e pini. Teneri compagni di viaggio e fonte di vita dell’uomo montano.
Ora non ci sono più! Spezzati da un vento che orecchio vivente mai aveva sentito finora.
La montagna rimasta nuda. Nuda come cento anni prima.
Allora, per la furia di mani armate dall’uomo. Oggi, per il potente soffio di madre natura.
Una natura a volte spietata e incredibilmente cruenta.
Mai suddita dell’uomo. Libera.
Comunque… sempre madre.
Una madre che, come tutte, sa sgridare al momento giusto. Non tace, quando c’è da richiamare, ammonire e correggere. Una madre che si sa ricreare, perché è lei che dà vita. Una madre che sempre genera e rigenera vita, perché l’unica cosa che sa fare è amare. E l’amore, si sa, spesso ha un sapore amaro. Amaro come lo spettro di quelle montagne ferite, come il cuore di quando si è sgridati, corretti e ripresi.
Forse, non siamo più abituati a lasciarci umiliare. Ad accettare le sconfitte. A fare i conti con l’impotenza.
Ma lei è lì, vigile come sempre, a ricondurre su quella, che le mie antiche educatrici della dottrina di un tempo, chiamavano “retta via”.
Un po’ come la vedova del Vangelo. Povera come nessun altro, ma che non si perde d’animo. Con il fiato bloccato in gola, sale la rampa del Tempio stringendo tra le mani tutto ciò che le è rimasto: due monetine.
Vedova. Sinonimo di esclusione da tutto e da tutti. La sconfitta per eccellenza. Nessuna garanzia di sussistenza.
Desiderosa di dignità, non saranno neanche quelle due monetine, unico salvagente a cui aggrapparsi, a fermarla e desistere. Non teme niente e nessuno. Non ha nulla da perdere.
Si mette alla coda dei signorotti del tempo nel loro incedere solenne, con il superfluo tra le mani, da offrire a Dio, come una partita di giro.
Lei, nel tesoro del Tempio, getta a Dio tutto ciò che ha e si getta in Dio con tutto ciò che è.
Ripenso alle montagne rimaste nude. Penso e ripenso alle parole di Gesù. Penso a me, al mio dare e al mio darmi. Al mio alterno essere scriba e vedova.
Guardo questa vedova che ho incrociato mille volte nella mia vita.
Una povera vedova, vista e incontrata nei volti dei miei maestri, incrociati nelle banchine dei margini e nei bassifondi al di là dei percorsi solenni, quelli illuminati dalla luce dell’ipocrisia, della superficialità e della falsità degli scribi dei nostri tempi.
Sono ancora i tanti poveri cristi scartati a farci scuola: quelli che lottano. Che hanno creduto, si sono affidati e fidati.
Sono quelli e quelle che stanno un po’ più in là, defilati, messi nella fila che non conta. Sono quelli che ci ricordano che quel Dio che ama tutto e tutti, ha anche lui le sue debolezze. Predilige chi sa dare tutto. Chi si sa dare tutto. Chi si lascia mettere a nudo per dare spazio alla creativa azione di Colui che tutto può.
Ogni male non viene per portare male. Ogni povero è il raggio del sole che ci ricorda il perché della vita e ciò che più conta nella vita.
I nuovi alberi li vedranno chi arriverà molto dopo di noi.
Così vedranno anche dove saremo stati capaci di investire le nostre monetine.
Fabrizio Bagnara