«Come ti trovi a scuola? Bene? Ascolti la maestra o chiacchieri con il tuo compagno di banco?» gli domando, distrattamente.
«Il mio compagno di banco è Luca: lui non parla e poi esce sempre prima!» dice, con semplicità, Tommaso: 6 anni, carnagione olivastra da egiziano (copto-ortodosso), una simpatica faccia tonda, due occhi grandi, un sorriso senza denti davanti e sguardo da monello al cubo.
Inutile dire che, con una frase, mi ha demolito.
Innanzitutto, la prima parola che gli è affiorata alla bocca, per descrivere il suo compagno è «Luca». Il suo nome. Non è affatto scontato. Fioccano le riflessioni sul significato del nome tra gli Ebrei, quando condividiamo un pensiero sul secondo, tra i comandamenti (“Non pronunciare il nome di Dio invano”). Non ho potuto fare a meno di pensare ai tanti problemi (inconsistenti) che, spesso, affollano la nostra mente, quando abbiamo di fronte a noi una persona disabile: tendiamo ad essere enormemente preoccupati sulle parole “giuste” da scegliere, spesso andiamo in ansia se ci tocca dover affrontare apertamente il problema fisico che l’affligge e siamo enormemente concentrati nella descrizione del problema. Tommaso, ci riporta alla mente e al cuore che l’essenziale della vita, a volte, è ricordarci un nome e un volto.
Solo secondariamente, Tommaso identifica quella che è la peculiarità di Luca («non parla»). Solo a seguito di una successiva domanda, Tommaso precisa: “era anche all’asilo con me, non parla, fa solo versi”. Lo conosce ormai da anni, quindi, eppure non sembra così interessato a conoscerne la cartella clinica. La realtà è che identificare e catalogare le persone come “diagnosi” è una prassi di noi adulti. Per Tommaso, come per i bambini in generale, lui è “Luca”.
Nell’ultima affermazione («esce sempre prima»), c’era poi un misto di disdetta, solitudine ed invidia. Del resto, i bambini tendono, spesso, a lasciare per ultimo proprio ciò che li ha colpiti di più o che più interessa loro farci sapere.
Questo piccolo dialogo con Tommaso, seguito all’intervista con Arturo Mariani, ha confermato una mia sensazione. Il problema – principe non sono i bambini che si impressionano (spesso, è solo una nostra fissazione, assai distante dalla realtà!), bensì gli sguardi di noi adulti verso la disabilità. Dovremmo imparare da loro a guardarle – semplicemente – come persone uguali a noi: sarebbe il primo passo verso la semplificazione della loro e della nostra vita!
(Maddalena Negri)