Allo “Spitz Verle” si arriva a piedi partendo da passo Vezzena, ultimo baluardo dell’antica Reggenza dei 7 Comuni. Ci accoglie ciò che resta dell’antico Forte austroungarico, presidio silente della sanguinosa Grande Guerra. Ciò che si dipana al nostro sguardo, ci ruba il fiato.
Accompagno nel cammino colui che dopo un paio d’anni sarebbe diventato il mio vescovo. Temevo, e così fu, che scegliesse di salire per il sentiero più diretto, quello ripido, irto e impervio. Pazienza.
A 1900 metri d’altezza le prospettive, le distanze e le vedute, hanno il sapore dell’Eterno.
Sì, sul monte ci si rasserena in un abbraccio dolce con la creazione e con il suo Autore.
Ai nostri piedi, si riflettono i primi Laghi del Trentino, davanti a noi il giardino del Parco delle Dolomiti, sopra di noi un cielo terso, di aria lucente, rarefatta e rinfrescante.
Seduti a consumare il nostro spuntino, di fronte a quell’incantevole cartolina, si commenta il piacere … di stare lì. Dimentichi della fatica e incuranti del pericoloso sudore, ogni nostra parola ha il sapore della preghiera. Non formule, ma riflessione e dialogo. Com’è bello stare qui.
Ad un tratto, fulmineo e senza preavviso, tutto scompare. Ci ritroviamo al buio. Freddo e buio. Una nuvola arrivata da non si sa dove, ci avvolge. In montagna capita così. Non è più bello stare qui.
Dopo un po’ l’imperativo autorevole, uscito dalla bocca del nostro importante compagno di escursione, ha il potere di chi crede in ciò che dice. “Esca il sole!” … e così è. Ogni goccia di nuvola si dissolve e si regala al vento, che la porta via. Torna il sole e, con lui, il rinnovato piacere di stare li.
La mente naviga e mi riporta ad un altro monte. Più brullo, più basso e in una terra lontana. Il Tabor. Un monte consegnato ai tempi come scenario della più prodigiosa “comparsata” di Colui che è ma non si vede.
Sei giorni prima – dice Matteo nel suo vangelo – il pescatore, scelto come pietra di fondamenta solide, aveva spiazzato tutti con l’entusiasmo di un bambino appena uscito dal luna park: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Mai nessuno era riuscito a dire così tanto dell’uomo di Nazareth, riconoscendone la divinità.
L’incanto però durò poco. È bastato che il Figlio dell’uomo anticipasse il suo inevitabile andare a Gerusalemme e dover abbracciare la croce, che l’uomo del lago urla e protesta perché non vuole che ciò accada.
“Va’ dietro a me satana!” lo rimprovera il Maestro. Non metterti di mezzo ad ostacolare il progetto di Dio. Povero Pietro! Non riesce a pensare come Dio, ma rimane intrappolato nella miopia del cuore e della mente. Voleva solo difendere l’Amico, non capendo che, però, stava prestando il fianco alla bestia. A colui che non ama l’armonia del cielo che si impasta di terra. Vade retro satana! Risuonerà nei secoli.
Forse preso dallo sconforto, nel vedere che i suoi amici più intimi avevano capito poco meno di nulla di lui, gioca la sua ennesima carta.
Ne prende tre. Il possente pescatore del lago e i due fratelli figli di tanto orgogliosa madre, moglie di tal Zebedeo, che non perde occasione per “raccomandare” un posto di riguardo per i suoi due gioielli.
Presi dal gruppo quali degni rappresentanti della mediocre incapacità a comprendere parole e gesti del Maestro.
Anche loro, ignari testimoni, sono saliti dal sentiero irto e impervio di quel monte seguendo Gesù, senza ancora capire il perché di tanta fatica. Non gli era ancora chiaro che al monte – luogo privilegiato dell’incontro con Dio – dove Dio parla, non si arriva facilmente. Costa fatica. Fatica che ti obbliga a liberarti di pesi inutili. Delle zavorre che limitano il passo.
Per loro, poi, è successo l’inenarrabile! Anche al Tabor, come allo Spitz Verle, come in tutte le “montagne” della nostra esistenza, arriva la nube. La nube che oscura il traguardo e fa perdere l’orientamento. Nella nebbia, lo sanno bene i padani, orientarsi è difficile.
Quante nubi, nella vita di quei tre saliti lassù! Quanta nebbia anche nel mio cammino e nella vita di ciascuno. Di molti.
È il momento nel quale tutto sembra perduto. La “nebbia”, che ti blocca di fronte alla perdita di una persona cara. Che ti fa perdere il respiro quando le cose vanno male. La nebbia che non ti fa capire. Né vedere.
Ed è allora che succede il prodigio. Se ti sai anche solo trascinare sul monte, Lui ti regala un anticipo di futuro. Se la nuvola della mia montagna, che posso trovare in ogni angolo del mio andare, mi offusca il cammino, è allora che posso sentire la mano sicura del Maestro e Amico che mi rasserena e mi facilita nel – a volte duro – cammino della vita.
La morte. Quella definitiva alla fine dei giorni o le tante piccole “morti” quotidiane non diventano più lo strapiombo entro il quale posso scivolare, ma un semplice corridoio per passare di là.
Gesù con il “trasformarsi” nel monte Tabor, assumendo l’aspetto della gloria, mi assicura che anch’io vivrò da trasfigurato. Trasformato.
Gesù, la morte, la guarda in faccia. Non teme, perché nulla è impossibile a Dio e, alla morte, lui ci passa dentro! La vive. Ci sta dentro, ma per attraversarla. La morte si attraversa!
Ed è così che presenta ai tre – per dirlo a tutti – che il tempo della Legge e dei Profeti, trova in lui compimento. Che tutto è orientato verso quella luce e quelle vesti splendenti.
Verso quel volto radioso e rassicurante. Sì, il suo volto diventa radioso. Gesù è un Volto, non una dottrina!
Trasformato. Di una luce che abbaglia. Incanta! Per dirmi che sarà così anche per me!
Com’è bello stare qui!
E invece no.
Dal monte si scende, per rientrare dentro i meandri di ogni storia, per regalare almeno un po’, di quella luce. Quella luce che il mondo non sa dare, ma di cui tutti provano nostalgia. La luce della Speranza!
Com’è bello, allora, stare anche a valle, ma con lo sguardo proteso verso ogni monte dove si fa trovare Lui. Soprattutto quando la nube oscura mi avvolge.
Com’è bello stare qui.